I tre concetti chiave della cultura del dono

 In Articoli, Spazio Positivo

“Perché vedi, sarebbe come vendere a qualcuno un prodotto che non si conosce”

La voce di Natalìa Pazzaglia è risoluta, come solo quella di chi riesce a guardare una situazione da diverse prospettive può esserlo. Ed effettivamente, se ti trovi come Natalìa nella condizione di essere sia donatore che professionista della raccolta fondi, finisci col conoscere bene i bisogni di entrambe le parti – i beneficiari del progetto da un lato e i suoi donatori dall’altro – e il tuo punto di vista diventa bipartisan.

Vestire i panni del donatore significa, per un fundraiser, capire ciò che spinge una persona a donare.

È possibile quindi comunicare l’importanza del dono se non si è mai stati donatori? Probabilmente sì, ma verrebbe a mancare la concretezza, quel valore guida che accompagna il fundraiser nel raccontare l’importanza di un gesto – come quello del dono – che, economicamente parlando, non dispone di una controparte e non regala un bene tangibile in cambio.

“Mancare l’obiettivo” – rivela Natalìa – “significherebbe incrinare la fiducia dei donatori e spegnere il fuoco che alimenta la cultura del dono: la rendicontazione di un gesto speciale.”

Natalìa, raccontaci di te. Cosa hai fatto prima di approdare a #fundraiserpergliospedali?

Per quanto riguarda la raccolta fondi in ambito sanitario, ho avuto due esperienze significative: prima come responsabile fundraising e comunicazione per la Fondazione Molinette dell’Ospedale di Torino e successivamente come consulente alla comunicazione per l’organizzazione MedAcross all’interno di un progetto di assistenza sanitaria in Birmania. Il primo lavoro mi ha fatto capire come operano le fondazioni che promuovono la cultura del dono in ambito sanitario; la seconda si è rivelata fondamentale per comprendere il modo migliore di raccontare storie di Paesi lontani dal nostro.

Lavorare nel non profit è stato l’esito naturale di una passione già presente e consolidata in me, quella del dono. Uno dei modi attraverso cui mi sono avvicinata al fundraising è stato infatti quello di essere donatrice in prima persona: da anni supporto economicamente alcune organizzazioni, partecipando, poi, anche a campagne di risposta a specifiche emergenze.

Essere donatrice mi rende felice, ma per dare concretezza a quest’attitudine prediligo solo organizzazioni che mi assicurano trasparenza in termini di rendicontazione. Quello che un donatore vuole sapere è, banalmente, dove vanno a finire i soldi e come il contributo è importante per il progetto. Ho portato con me questi due capisaldi nel mio lavoro di fundraiser e ogni volta cerco di inventare nuovi modi per spiegare in maniera semplice ma concreta i molti modi in cui i donatori cambiano il mondo.

Anche rispetto alla tua esperienza all’interno della Fondazione dell’Ospedale Molinette, sapresti dire perché è importante avere un esperto della raccolta fondi a sostegno di un ospedale?

Qualsiasi struttura sanitaria ha una burocrazia interna e una struttura piuttosto complesse: i servizi erogati sono molteplici e l’iter operazionale è molto lungo. Il più delle volte gli ospedali non dispongono di persone formate sui temi della raccolta fondi e, secondo la mia opinione, la divisione dei ruoli è fondamentale per fare bene in un contesto ad alta specializzazione del lavoro. Allo stesso tempo, i fondi che arrivano dallo Stato non sono sufficienti per fronteggiare situazioni di emergenza – come nel caso del COVID-19 – e per fare ricerca medica.

Investire in un professionista della raccolta fondi è utile sia per raccogliere fondi in situazioni emergenziali sia per generare valore a livello reputazionale (ad esempio investendo maggiormente nella ricerca medica), cosa importantissima quando si parla di salute.

Uno dei rischi di improvvisarsi fundraiser è quello di non riuscire a utilizzare al meglio gli strumenti del mestiere spezzando così il legame di fiducia con il donatore. Se, per esempio, in Fondazione non avessimo avuto un buon database, non avremmo potuto analizzare le caratteristiche dei nostri donatori principali, ovvero gli over 65 e forse avremmo utilizzato strumenti digitali di comunicazione non adatti al target, rischiando così di perderli. Se, al contrario, il donatore tipo fosse stato uno studente universitario che cambia indirizzo di casa ogni anno, avremmo sbagliato a inviare resoconti cartacei sull’impatto delle donazioni.

Quali sono i concetti chiave per generare fiducia nei donatori e promuovere così la cultura del dono?

Il primo aspetto per generare cultura del dono è senza dubbio la conoscenza diretta delle persone interne all’organizzazione che il donatore vuole sostenere. Nella mia esperienza personale ho notato che si è più inclini a donare se vi sono rapporti diretti con il Board o i fondatori dell’associazione poiché questo genera fiducia e si crede maggiormente nella buona riuscita di un progetto.

Se però un’organizzazione vuole ampliare la base dei propri donatori al di là della prima cerchia di contatti personali è fondamentale raccontare le storie di chi ha beneficiato dell’aiuto economico del donatore, creando un link emozionale tra mondi distanti che, attraverso un racconto empatico, possono avvicinarsi. Questo è quindi il secondo aspetto per promuovere la cultura del dono: lo storytelling.

Il terzo aspetto che aiuta a promuovere la cultura del dono è riuscire a raccontare quella stessa storia anche attraverso i dati: la trasformazione del dono in qualcosa di tangibile, rassicura il donatore, il quale percepisce che il proprio aiuto non è andato sprecato e che l’organizzazione ha davvero contribuito a cambiare una situazione difficile.

C’è chi dice che il dono ha perso valore nelle moderne società, sia perché a pensare alla redistribuzione del reddito sono le istituzioni pubbliche, sia perché il legame di reciprocità del dono è andato perduto. Il che vuol dire che se non riceviamo un bene in cambio del gesto compiuto, non siamo in grado di misurare il suo valore. Cosa ne pensi?

Raccontare una storia serve anche a questo, a dare concretezza al gesto. Il legame emotivo che viene istaurato tra donatore e beneficiario del progetto è esso stesso il dono, molto spesso più importante di qualsiasi bene tangibile.

Grazie Natalìa per questo bellissimo contributo e buon lavoro!


Se sei l’organizzatore di una raccolta fondi bloccata o un operatore sanitario alle prese con una raccolta fondi difficile, puoi compilare il form che trovi a questa pagina in modo da poter essere contattato da un nostro attivista fundraiser – come Natalìa – che potrà guidarti nel percorso di sblocco.

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